PUGILI SI RACCONTANO… Muhammad Alì, 17.1.1942 – 3.6.2016

“ Ciò che più ricordo dell’estate 1960 non è l’accoglienza da eroe, i festeggiamenti, il capo della polizia, il sindaco, il governatore, e neanche i dieci miliardari di Louisville, ma la notte in cui dal ponte della contea di Jefferson gettai nell’Ohio la mia medaglia d’oro olimpica.

Pochi minuti prima mi ero battuto quasi alla morte con uno che voleva portarmela via, nello stesso modo in cui ero stato disposto a battermi alla morte sul ring per conquistarla. C’erano voluti sei anni di sangue, di colpi, di dolore, di sudore e di lotte per avere quella medaglia, e mille round sul ring e nelle palestre, ed era un premio che avevo sognato fin da bambino. Adesso però l’avevo gettata nel fiume. Senza sofferenza né rimpianto. Provavo soltanto sollievo e una forza nuova. Ero diventato professionista. Avevo in tasca l’accordo stipulato con i dieci miliardari di Louisville, un ‘contratto nuziale’ per sei anni. Non avevo il minimo dubbio sul fatto che sarei diventato il campione dei massimi.”

“Pensavo solo a tornare a casa, inforcare la bici e correre in palestra. Cominciavo a boxare con l’ombra al mattino appena sveglio Poi mi fermavo in una piccola latteria per ordinare un cartone di latte e romperci dentro due uova crude perché qualcuno mi aveva detto che questo mi avrebbe rafforzato il fiato e i polmoni.”

“Mi alzai completamente nudo, boxai con l’ombra davanti allo specchio osservando i miei riflessi e controllando il mio equilibrio, e mi resi conto che avevano ragione. Non c’è al mondo sensazione migliore di quella di chi sente tutto il corpo in perfette condizioni, con i muscoli le ossa e il sangue pieni di energia. Acquisti una sorta di splendore e ti vibra tutta la spina dorsale. In quei momenti sembra che persino i tuoi pensieri producano nuovo vigore.”

“Non mi è mai possibile battere il mio avversario e soddisfare nello stesso tempo l’America Bianca. Se lo batto ‘teneramente’, cioè se lo picchio una volta o due, si mettono a strillare ‘Alì ha perso il suo pugno!’ , se lo riduco in polvere, gridano ‘Alì è un malvagio!’ .”

“Me ne sto lì in piedi a guardarla e mi rendo conto che quando un pugile viene battuto, lo sono anche quelli che credono in lui, i familiari, gli amici, i figli, quelli che lo applaudono, che gli danno il loro amore, la loro speranza, il loro orgoglio. Ma so anche che un pugile non può sopravvivere se quando perde si mette a piangere su se stesso. Ogni volta che accetto un incontro ne accetto anche le conseguenze. Faccio quello che posso perché finisca bene, ma se perdo devo rialzarmi e tornare a battermi, per quanto umiliante possa essere la sconfitta”

“Perché sul ring picchiavo con decisione, anche quando ero stanco, e continuavo a vincere. Non per abilità ma perché non mi fermavo mai. Gli altri invece mollavano o smettevano o si demoralizzavano. Ma fu partecipando al mio primo torneo dei Guanti d’Oro del Kentucky che appresi da una sconfitta più che da tutte le vittorie che avevo accumulato lavorando per Martin.”

“Dopo la scuola, lavoravo quattro ore dalle suore, poi andavo dalle sei alle otto nella palestra di Martin, infine incominciava il mio vero allenamento, dalle otto a mezzanotte, in quella di Stoner.”

“Un gelido brivido mi percosse le ossa. Niente mi ha mai scosso come queste parole: ‘campione del mondo dei pesi massimi’ . Ma di tutto il mondo? E a partire da quel giorno, voglio che si dica lo stesso di me.”

(citazioni di Muhammad Alì, tratte da “Muhammad Alì, il più grande”, a cura di Toni Morrison, edizione Mondadori)

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